Cosa mangiare

Amare la cucina tipica

Gli antipasti si basano soprattutto sui salumi nelle diverse produzioni; due in particolare meritano attenzione: il “Salam d’la duja”, il tipico salame di maiale conservato sotto grasso nelle olle, caratteristici recipienti in terracotta dall’imboccatura ristretta, e, soprattutto, il famosissimo salame d’oca, d’obbligo assieme ai prelibati patè. Ed inoltre non possono essere tralasciati il classico “bagnetto”, le varie frittatine, i funghi sott’olio, l’insalata di nervetti ed il pesce in carpione.

Un’altra insalata, molto comune in Lomellina, è quella di fagioli borlotti; questa varietà di fagioli grossi e tondi, con venature rosee, è l’ideale (come vedremo) anche per minestroni e risotti. In passato, fino all’avvento della crisi della piccola proprietà agricola, il fagiolo borlotto era molto coltivato nelle nostra zona. Le sue proprietà nutritive, ricostituenti ed energetiche, sono davvero notevoli: la pellicola contiene la maggior parte degli enzimi necessari alla sua digestione e assimilazione, l’interno è ricco di sostanze azotate, proteine e sali minerali, vitamine B e C.

Nei primi piatti la fa da padrone il riso, che troviamo nei minestroni e, soprattutto, nei risotti, che si ottengono facendo tostare il riso in un soffritto di lardo, cipolla tritata e pasta di salame, bagnando il tutto via via con buon brodo di gallina. La ricetta base si presta poi ai più fantasiosi abbinamenti: ecco dunque nascere il “risotto giallo”, il riso con i “fagiolini dell’occhio”, con le “barlande” (erbette dei prati), con i funghi porcini, con le tinche, con le quaglie, con gli asparagi, con la trippa e con le ortiche. Caratteristici della zona anche il delicatissimo risotto con le rane ed il “risotto arrostito”. Comune anche il riso e latte.

Per quanto riguarda i primi di pasta, possiamo citare di ravioli ripieni di arrosto e conditi con il sugo, le lasagne con le rigaglie, i tagliolini con gli asparagi e le farfalline con panna e funghi.

Passando alle minestre, oltre al classico minestrone, molto comune sono il riso e fagioli e la pasta e fagioli, il riso con le erbette, il riso con gli asparagi e la crema di asparagi; più ricercati sono la trippa in brodo, la zuppa di ceci (che si gusta tradizionalmente a novembre per il giorno “dei morti”), la zuppa di cipolle, la zuppa di rane ed il riso con la coratella.

Come si è visto, un altro prodotto tipico della Lomellina è l’asparago, la cui coltivazione non è semplice, in quanto necessita di terreni leggeri di fondo sabbioso ma ben profondi e concimati. La maturazione di questo ortaggio nelle sue molteplici varietà è inoltre lenta e irregolare e la raccolta e il confezionamento piuttosto laboriosi e impegnativi. Le sue molte virtù ripagano comunque abbondantemente gli sforzi: leggerezza e digeribilità sono le sue caratteristiche più note, insieme con le sue proprietà diuretiche e digestive. Le sue radici ricche di sostanze amare, acetato e fosfato di potassio, hanno inoltre proprietà antiasmatiche, antireumatiche, cardiotoniche, biliari e sedative.

Un piatto ormai pressoché scomparso è la minestra di pan grattato, nel dialetto locale panada: proveniente dalla cucina povera della vicina Milano, un tempo non mancava mai nel pranzo pasquale.

Lumache e rane sono la base dei piatti più tradizionali della Lomellina, tanto raffinati e prelibati da divenire quasi introvabili. Pietanze a base di maiale, manzo e oca e gustosi pesci del Ticino (anguille, trote, tinche, carpe e le tanto decantate bottine) completano il sostanzioso quadro. La polenta, giornalmente presente in passato sulla mensa come del resto presso tutte le popolazioni contadine, si può accompagnare con quasi tutte le pietanze che seguono. Particolarmente caratteristica polenta e sarach, immancabile nei tempi andati sulle tavole dei poveri. Come secondi piatti si può trovare una vasta gamma di specialità a base di maiale, per combattere il clima freddo e umido della zona. Del suino si utilizza proprio tutto, lo dimostrano i molteplici impieghi di tutte le sue parti: coppa fresca, arista, lonza, braciole, tempia, scottadino, zampino, orecchie, cotenna, cuore, fegato, polmone. Tutti gustosi allo stesso modo, e spesso davvero originali, dal cotechino al salame di pasta buona, dal marzapane alla salsiccia, questi piatti rispettano una tradizione antichissima perché in tutta la Lomellina era consuetudine ogni anno ammazzare il maiale (la tradizionale purslatada), che costituiva così una riserva alimentare per tutta la famiglia. Oltre ai salumi vari, ricordiamo il “ragò”, un piatto a base di verze arrosto con costine e cotenne di maiale, o la frittura da accompagnare alla polenta.

Un altro caratteristico piatto, ormai scomparso dalle tavole lomelline, è la frittura di sangue di pollo, mentre si trova spesso il bollito. La selvaggina trova spazio con la lepre in salmì e con il fagiano alla cacciatora, i funghi sono presenti con i chiodini, che abbondano in campagna, cucinati con salsiccia, lombo e polenta, il cotechino con le lenticchie o la purè. Altrettanto invitanti sono i piatti con le lumache e con i caratteristici pesci nostrani: Carpa, Luccio, Tinca, Anguilla, pescati con piccole reti nei cavi irrigui, o i prelibati i pesciolini di fine stagione fritti e croccanti.

Per non dimenticare gli animali allevati in cortile, l’oca, l’anatra, la gallina, la faraona, il tacchino.

Le erbe raccogliticce della campagna vengono cucinate al tegame con burro o nelle più svariate frittate (poco conosciuta, ma tipicamente locale la frittata con “luvartis”, il luppolo selvatico), mentre gli asparagi vengono affiancati alle uova. D’estate, a dominare la cucina locale sono le rane, gli inquilini più comuni di fossi e risaie; per molte generazioni di adolescenti è stata il primo oggetto di caccia e di divertimento nella tradizionale (e forse un po’ primitiva) pesca alla rana. I diserbanti e gli anticrittogamici usati spesso in modo sconsiderato per eliminare le erbacce dalle risaie e il diverso trattamento dei terreni agricoli hanno compromesso la cospicua presenza del nostro anfibio, uno dei simboli della Lomellina. Le rane si possono gustare fritte, in guazzetto, con la frittata o nella zuppa.

Non si può davvero dire che la Lomellina offra una consistente tradizione dolciaria, tuttavia, in particolari occasioni, alcune ricette originali e tipiche, per cui vengono sempre utilizzati i semplici e genuini prodotti locali: uova, burro, farina. Si cucinano in casa diversi tipi di torte: la “virulà” (bianca e nera) quella di riso, di pane e la torta paradiso. Ed ancora i biscotti Bramantini di Vigevano, i biscotti di riso ed il “dolce del Moro”, la cui ricetta risale al tempo di Ludovico il Moro. Nel periodo carnevalesco è tradizione preparare anche le frittelle o le bugie (“galle”). Ed infine non possiamo dimenticare la regina dei dolci lomellini, una prelibata bontà fragrante e genuina: le Offelle di Parona.

OFFELLE DI PARONA

Ha già compiuto un secolo la specialità dolciaria tipica di Parona: l’Offella. Uno squisito biscotto, dal gusto unico e dall’inconfondibile forma ovale, nato da un indovinato incontro degli ingredienti più semplici e nutrienti. A inventare abilmente l’originale biscotto due intraprendenti sorelle paronesi, Pasqualina e Linìn Colli, che sul finire dell”800 crearono questa specialità senza mai rivelare a nessuno la segreta ricetta.

Inizialmente le Offelle venivano prodotte in quantità limitate e vendute a numero, anziché a peso, tanto erano preziose. La loro presenza sulle tavole paronesi fu da subito legata alla ricorrenza della Madonna del Rosario, divenuta, tradizionalmente, festa patronale: in quella occasione, infatti, si preparavano le Offelle da consumare durante quel giorno di festa popolare, quando arrivava gente anche dai paesi vicini per gustare il biscotto prelibato.

Il grande lancio commerciale delle Offelle arrivò, invece, a partire dal 1969, quando venne organizzata la prima Sagra di questo prodotto tipico. Da allora, la locale Pro Loco tutela la genuinità del biscotto attraverso un marchio di garanzia fornito ai produttori, che hanno preso il posto degli antichi forni casalinghi. E mentre l’Offella ha conquistato località sempre più lontane, e viene oggi gustata da Roma a New Jork, tutti gli anni si rinnova la Sagra alla prima domenica di ottobre: migliaia di turisti affollano il paese, attirati dai mille colori della spettacolare festa popolare e dall’intramontabile dolcezza dell’Offella.

Rievocare piatti rinascimentali, approfondire la conoscenza di una cucina che è stata realizzata nel nostro Castello di Vigevano in epoca sforzesca è un fatto di cultura. I prodotti delle cucine ducali erano vere leccornie. Il termine leccornia nasce nel XIV secolo e nel Rinascimento trova uso comune per definire un cibo prelibato, grato al gusto, di aspetto raffinato. Tali dovevano essere i piatti alla tavola del Duca.

Come era la tavola del Duca?

Alla corte sforzesca le feste erano in gran voga. Il banchetto era il modo migliore per sottolineare ed esaltare il potere alla presenza di ospiti illustri. Le occasioni erano molteplici: le vittorie, le nozze, l’elezione del pontefice o l’arrivo di personaggi di grande rilievo. Lo stesso Leonardo da Vinci era impegnato a disegnare costumi teatrali o macchine per allietare le feste.

Come era organizzata la cucina ducale?

Nonostante il lusso ostentato e la confusione apparente delle gioiose feste a corte, non si deve credere che non ci fossero ordini precisi per evitare gli sprechi e limitare le spese. Ludovico il Moro aveva fissato regole ferree per la cucina e la cantina. In cucina secondo i suoi dettami, dovevano lavorare non più di quattro cuochi, quattro sottocuochi e due scottini. Il vino veniva distribuito solo a chi ne aveva diritto. I vini destinati alla sua persona, dovevano essere tenuti rinchiusi nella torre, la cui chiave doveva essere custodita da un caneparo fidato e discreto. Si tenevano registri aggiornati, mese per mese, di tutte le spese necessarie e doveva essere fatto, ogni anno, un inventario di ciò che era in dispensa. Tutti gli stipendiati di casa dovevano mangiare in sala. La brigata della cucina medievale era una vera e propria schiera di persone con compiti e gerarchie ben definite.

1 . Il maestro di casa era il grado più alto del personale della corte.
2 .Lo scalco presiedeva e organizzava il servizio della mensa, dava ordini e impostava il ritmo del banchetto tra una portata e l’altra.
3. Il trinciante tagliava le carni e le sistemava sui piatti di portata.
4. Il credenziere si occupava degli argenti e delle suppellettili che erano messe in mostra appunto nella credenza. Inoltre, preparava torte salate, salsicce e mortadelle.
5. Il coppiere sceglieva il vino e faceva fare la “credenza” dal bottigliero.
6. La ”credenza” era un assaggio preventivo, in uso nel Quattrocento, del vino e del cibo, eseguito dal personale subalterno per scongiurare la presenza del veleno.

Chi era il cuoco ducale per eccellenza?

Maestro Martino: era sicuramente lui, il cuoco più innovatore, raffinato e importante della corte ducale. Maestro Martino nacque in valle di Blenio, località Torre, oggi Canton Ticino. La sua carriera iniziò a Milano presso la corte viscontea. Il suo impegno come cuoco ducale fu solo sporadico, ma ugualmente significativo. Tra il 1457 e il 1462 esiste la traccia di documenti di autorizzazione di viaggi rilasciati dalla corte ducale, dove lo stesso Martino era definito “coquo camerariorum” che era l’appellativo dato all’amministratore dei beni ecclesiastici (egli era infatti al servizio di Lodovico Trevisani patriarca di Aquileia). Il primo libro di Maestro Martino è il “Libro de arte coquinaria”, composto per il Reverendissimo Monsignor Camorlengo, et Patriarca de Aquileia, oggi conservato nella Biblioteca di Washington. Nell’arco della sua vita Martino spazia, con la sua maestria in cucina, dall’Italia del Nord fino al centro e poi al Sud.
Dopo aver lavorato per la corte sforzesca, si mise al servizio di Gian Giacomo Trivulzio, divenuto acerrimo nemico di Ludovico il Moro. Si trasferì in seguito a Roma alle dipendenze del Patriarca di Aquileia, dove incontrò Bartolomeo Sacchi detto il Platina, autore del libro “De honesta voluptate et valetudine” di cui Martino è sicuramente l’ispiratore. La cucina di Maestro Martino fu sorprendentemente innovativa e di grande successo. Se il ‘300 è stato il secolo dell’eccesso delle spezie e dei cibi di grandi dimensioni, Martino porta nel ‘400 la misura. Per ogni taglio di animale suggerisce una precisa tecnica per cucinarlo. Per primo condisce i maccheroni con “cacio e spetie” anziché cuocerli nel latte o nel brodo di cappone. Nei giorni di grasso frigge con lo strutto, nei giorni di mago, con l’olio. Sostituisce le spezie forti con le erbe profumate come il rosmarino, la menta e la maggiorana. Infine è insuperabile nell’attenzione dedicata alla cottura dei pesci ed al loro utilizzo a seconda della loro taglia. Non a torto Bartolomeo Platina lo definisce “principe dei cuochi” del suo tempo.

Cosa si mangiava alla corte ducale?

Le preparazioni di allora erano molto differenti da quelle attuali, per vari motivi. Intanto la varietà di specie di piante ed animali di allora è oggi in gran parte perduta, insieme ai sapori di quel tempo. Gli alimenti del nuovo mondo, poi, non avevano ancora fatto il loro ingresso in cucina. Ci riesce difficile immaginare la nostra alimentazione senza mais, patate, peperoni, pomodoro, cioccolato… Proporrò quindi, cibi e ricette d’epoca, aggiornati secondo il nostro gusto e preparati con gli ingredienti oggi disponibili . Ho sperimentato ogni piatto di persona e, a volte, l’ho condiviso con gli ospiti, in occasione di eventi particolari, proprio nel Castello di Vigevano.

Le ricette di corte:

CASO IN PATELLECTE

Piglia del caso grasso, et che non sia troppo vecchio, né troppo salato et tagliarai in fettolini o bocconi quadri, o como ti piace; et habi de le padellette fatte a tale mistero; en sol fondo metterai un poco di butiro, overo di strutto fresco, ponendole a scaldare sopra le brascie, et dentro gli mettirai li ditti pezzoli di caso; et como ti piace che sia facto tenero gli darai una volta, et mettendogli sopra del zucharo et de la cannella; et mandaralo subito in tavola, et si vol magnare dopo pato et caldo caldo. Item poterai conciarein altro modo lo ditto caso brustolando, prima arrostendo al foco de le fette de lo pane tanto tanto che da ogni lato s’incominci a rostire, mettendo le dicte fette per ordine in una padella da torte; et sopra a quelle ponerai altramente fecte di caso un poco più sottili che quelle de lo pane; et sopra la padella mettirai lo suo coperchio fatto caldo tanto che l’ditto caso s’ncominci a strugere, o a squagliare. Et facto questo gli buttarai di sopra del zuccharo con un poca di cannella, et zenzevero. 
Partendo da uno studio accurato delle fonti, ho rielaborato questa ricetta di Mastro Martino, per renderla il più possibile vicina ai nostri gusti, senza perdere di vista il rigore scientifico della sperimentazione.

Ecco la mia versione:

BRUSCHETTA SFORZESCA

Ingredienti: 8 fette di pane casereccio, 8 fette di fontina, 30 gr. di burro, zucchero di canna. Abbrustolite le fette di pane casereccio. Spalmatele ancora calde con il burro. Su ciascuna fetta di pane, disponete una fetta di fontina. Cuocete in forno, caldo finchè il formaggio non sia leggermente fuso. Spolverizzate subito con zucchero di canna e servite immediatamente. Maestro Martino ci raccomanda “ di mandarlo subito in tavola che si vuol magnare dopo pasto et caldo caldo”. Noi abbiamo preferito collocare la “bruschetta” all’inizio del pasto.

Amare la Cucina Tipica